Hans Holbein il giovane: Gli ambasciatori

Brevi cenni storici sull’artista

Figlio d’arte, Hans Holbein il giovane nacque da Hans Holbein Il Vecchio (1465 – 1524). Studiò alla bottega di suo nonno e suo padre come il fratello maggiore Ambrosius Holbein (1493/94 – 1519). Dal padre restò influenzato soprattutto per la caratteristica della narrazione precisa.

La sua vita e le sue opere vanno collocate sullo sfondo dell’umanesimo e di un’Europa scossa dalla riforma luterana (la riforma protestante ha una data di inizio ufficiale, che coincide con la pubblicazione delle 95 tesi da parte di Martin Lutero, affisse, secondo il resoconto di Filippo Melantone sulla porta della Cattedrale di Wittenberg, mercoledì 31 ottobre 1517[1]).

Nel 1526 riparò a Londra per sottrarsi alla Riforma Luterana, accompagnato da credenziali offertegli da Erasmo e Thomas More. Eseguì il progetto per un arco di trionfo per l’ingresso a Londra di Anna Bolena e dipinse Gli Ambasciatori nel 1533.

Nel 1536, nominato pittore personale di Enrico VIII, divenne in breve il ritrattista ufficiale della corte inglese. Ritrattista che sapeva cogliere, dietro l’apparenza, le espressioni più personali e significative dei suoi personaggi sino a descriverne le caratteristiche spirituali e morali, cercando di coniugare la tradizione gotica con le nuove tendenze umanistiche, e le influenze lombarde con quelle fiamminghe.[2]

Nei suoi ultimi anni, Holbein lavorò a Londra e a Basilea. Stava lavorando ad un altro ritratto di Enrico VIII quando morì di malattia del sudore, il 7 ottobre 1543 a Londra.

 

Commento sull’opera “Gli ambasciatori del 1543”

Il capolavoro di Holbain è un quadro di grandi dimensioni che ritrae, a grandezza naturale,  due giovani ed importanti personaggi della sua epoca (un ambasciatore e un vescovo) all’apice della loro bellezza e della loro carriera, in un ricco interno della sua epoca, con sullo sfondo una tenda verde, appena scostata sulla sinistra, dietro alla quale, si intravede appena un piccolo crocifisso. Nel quadro, al centro è dipinto un comò aperto sotto, dove sono adagiati: nella parte superiore, i più moderni e costosi strumenti dell’epoca per misurare il tempo e gli astri e nella parte inferiore, strumenti di intrattenimento per produrre melodie e musica.

Nel quadro che vuole rappresentare  quanto sia vana ogni cosa in questo mondo, come recita il versetto bibblico del libro dell’ecclesiaste: “Vanità delle vanità tutto è vanità” è dipinto, al centro, in basso, un teschio che si può vedere solo guardando il quadro da sinistra. Il teschio  vuole ricordare a chi guarda il quadro, la fine che inevitabilmente faranno tutte le persone e le cose in esso contenute, infatti  i due protagonisti che possiedono tutto ciò che si può desiderare: giovinezza, bellezza, importanza legata al loro ruolo nella società, oggetti preziosi e stimolanti per soddisfare la loro curiosità scientifica e il loro desiderio di bellezza e di armonia, finiranno inevitabilmente in polvere e cenere, come avviene di tutto ciò che è corruttibile. Solo la verità dell’amore di Dio per l’uomo, rappresentata dal piccolo crocifisso seminascosto nell’angolo sinistro del quadro, è destinata a rimanere in eterno e a sopravvivere a tutto il resto dandoci la possibilità, se lo vogliamo, di un’eternità felice insieme a Dio nostro Padre.

Che ne dite, Holbein con il suo capolavoro ci da una bella lezione, invitandoci a considerare che, tutto ciò a cui siamo attaccati e persino noi stessi, diventeranno, inevitabilmente polvere e cenere, perchè su tutto prevarrà la morte e la corruzione. Quello che invece rimarrà in eterno è l’amore di Dio,  a cui spesso diamo una minima importanza, rappresentato nel quadro come un dettaglio insignificante.

E’ un chiaro invito a guardare ciò che è nascosto perchè, il più delle volte, è proprio lì che si scoprono le cose più preziose.

Benedetto Spadaro